di Stefano Masini
Quando parliamo di sicurezza alimentare, siamo solitamente intrattenuti a riflettere sui requisiti di salubrità degli alimenti, mentre un ruolo altrettanto importante deve essere riconosciuto alla sicurezza intesa come modalità di organizzazione degli scambi.
Se il legislatore europeo, ha tentato di modulare la scelta di un nucleo minimo di sicurezza, dettando disposizioni igienico-sanitarie di carattere specifico finalizzate a ristabilire la fiducia tra i consumatori dopo il verificarsi di casi singolari che hanno destato seria preoccupazione (si pensi agli episodi della così detta mucca pazza o dell’influenza aviaria) poca attenzione è stata riposta al rapporto tra i prodotti alimentari e la loro provenienza geografica. Si tratta di un tema tuttora aperto in Europa, che coinvolge la sicurezza sotto un profilo strategico ad oggi poco indagato, ma che riflette le nuove istanze economiche e sociali.
Di sicurezza si parla, infatti, anche in un altro contesto, solitamente associato al comparto militare, ma il cui riferimento in questa sede appare appropriato per le numerose implicazioni che ne derivano sotto il profilo degli scambi.
La Direttiva n. 2008/114/CE relativa all’individuazione e alla designazione delle infrastrutture critiche europee e alla valutazione della necessità di migliorarne la protezione impegna gli Stati ad individuare e ad assicurare la più ampia tutela ad un sistema che risulta «essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale dei cittadini ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in uno Stato membro a causa dell’impossibilità di mantenere tali funzioni».
La sicurezza, pertanto, intesa come modalità con cui si organizzano gli scambi, assume i caratteri di una vera e propria infrastruttura articolata e complessa che comprende attività, tecnologie, risorse e organizzazioni che concorrono alla creazione di prodotti, specie di tipo alimentare e di servizi così detti ecosistemici: si pensi, ad esempio, all’approvvigionamento di acqua, ai trasporti, all’energia, alla produzione chimica, alla finanza.
Pertanto, si può ragionevolmente affermare che chi danneggia la sicurezza metta a rischio un’infrastruttura dello Stato o, eventualmente, dell’Unione Europea. Sotto questo profilo appare emblematico ricordare l’esperienza di alcuni Paesi nei quali l’assenza di cibo ha causato vere e proprie crisi istituzionali e politiche.
La sicurezza così intesa, con tutte le implicazioni cui si è accennato, impone di rivalutare il territorio non soltanto nella sua fisicità, ma anche e, soprattutto, nella sua sovranità: spazio entro cui lo Stato individua, riconosce e garantisce la sicurezza dei propri cittadini attraverso l’adozione di un chiaro programma diretto a tutelare la biodiversità in agricoltura e l’origine delle materie prime lavorate; a contrastare i fenomeni di pirateria alimentare e le attività criminali connesse al mondo dell’agricoltura; ad affrontare il tema degli OGM con riguardo ai rischi per la salute, ai danni per l’economia e alla perdita di identità per le produzioni agricole nazionali.
L’incidenza negativa dei comportamenti illeciti sul piano economico e sociale è stata efficacemente illustrata dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nel corso dell’assemblea del 30 maggio 2014. Nelle considerazioni finali, che hanno accompagnato la relazione annuale si afferma, infatti, che «corruzione, criminalità, evasione fiscale, oltre a minare alla radice la convivenza civile, distorcono il comportamento degli attori economici e i prezzi di mercato, riducono l’efficacia dell’azione pubblica, inaspriscono il livello di tassazione per coloro che adempiono ai propri doveri, comprimono gli investimenti produttivi e la generazione di nuove occasioni di lavoro. Il buon funzionamento della pubblica amministrazione migliora l’operare dei mercati e la concorrenza, riduce i costi delle imprese, si riflette sulla qualità e sul costo dei servizi pubblici e, per questa via, sul carico fiscale. Da esso dipende l’efficacia delle riforme».
Tali conseguenze sono proprie anche del settore agro-alimentare, quando si sceglie un modello politico-economico che non riconosce alla sicurezza il ruolo cardine che, invece, riveste a garanzia di uno sviluppo ampio e condiviso.
Risulta, ad esempio, seriamente preoccupante la volontà dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) di concedere nomi a dominio quali .vin, .wine e .cheese come termini generici, da utilizzare, da parte di qualsiasi operatore, sulla base di una semplice richiesta, con la conseguente possibilità di contrassegnare come italiani prodotti di provenienza assolutamente diversa, con danni incalcolabili al nostro Made in Italy: si pensi a domini come brunellodimontalcinowine o parmigianocheese che, una volta digitati, rinviano a prodotti che non presentano alcun legame con il territorio italiano. È di tutta evidenza, allora, quanto sia necessario garantire l’infrastruttura critica della nostra agricoltura contro i numerosi attentati che minano alla radice la sicurezza delle filiere italiane.
Giovanni Pitruzzella, presentando la relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato il 30 giugno 2014, ci ha ricordato – e gli organi di stampa ne hanno riproposto alcuni passaggi fondamentali – che si è diffuso un modello di capitalismo fondato sulle relazioni tra alcuni grandi poteri economici, sul rapporto privilegiato con gli apparati pubblici, sulla protezione nei confronti dei concorrenti; si tratta, ora, di invertire la rotta e ristabilire l’ordine nei rapporti tra democrazia, mercato e coesione sociale, al fine di rendere la concorrenza più leale e restituire fiducia al consumatore.
L’obiettivo perseguito da Coldiretti fa, perciò, leva sulla necessità di ricreare un legame tra produzione e territorio, perché a favore della sicurezza oggi milita una nuova forma di produzione in cui l’incidenza del rischio tanto più si riduce quanto più la filiera si avvicina al consumatore.
Gli esempi di filiera corta, di vendite dirette, di farmers’ markets non che di gruppi di acquisto solidali sono sempre più numerosi e sono espressione della capacità di creare sviluppo locale, di valorizzare l’agricoltura di prossimità e di rimuovere alcune distorsioni della grande filiera organizzata.
Coesione sociale e sviluppo territoriale, dunque, sono le parole-chiave da cui partire per riorganizzare le regole del territorio, con il coinvolgimento indispensabile di tutti gli attori che partecipano alla vita di comunità flessibili e intelligenti.
L’approccio degli Italiani al cibo
I cambiamenti nella cultura e nell’etica modificano la percezione degli alimenti. Non si tratta solo di reperibilità dei prodotti (legata, indirettamente, al loro prezzo), ma anche di sensibilità diffusa ed informazione. Una popolazione più attiva rispetto al passato nella ricerca e nella maturazione di informazioni sui prodotti e sulla salute opera scelte alimentari più consapevoli e complesse.
Il rapporto con il cibo è oggi l’intrecciarsi di diverse componenti: necessità, piacere del mangiar bene, socialità, consumo critico, sicurezza/insicurezza rispetto alla qualità degli alimenti, responsabilità sociale nei confronti dell’ambiente, il rapporto con il cibo è espressione dell’identità e di uno stile di vita.
In alcuni casi la maggiore attenzione all’alimentazione rappresenta anche una riscoperta del valore culturale del cibo. Lo dimostrano il crescente interesse nei confronti del rapporto tra cibo e territorio e la diffidenza verso l’industrializzazione eccessiva del settore agroalimentare.
Gli ultimi anni raccontano una innegabile diffusione della cultura dei mangiar sano, amplificata dallo spazio su Tv e giornali dei consigli dei nutrizionisti. Se i consumi alimentari rimangono fermi in questa difficile congiuntura, quelli di nicchia (biologici, di origine controllata e protetta, equo solidali ecc.) segnano invece un incremento: nelle scelte di molti italiani la qualità prevale sulla quantità.
La normativa agroalimentare comunitaria
La libera circolazione delle merci impone agli Stati Membri dell’Unione europea un certo grado di corresponsabilità in merito a questioni estremamente sensibili, soprattutto nell’ambito della tutela del consumatore.
Tale aspetto è particolarmente rilevante per quanto concerne il settore agroalimentare, dove i concetti di sicurezza e controllo della qualità diventano assolutamente centrali.
La disparità tra le singole normative nazionali, la poca chiarezza della legislazione comunitaria, la discrepanza nei controlli alle frontiere esterne, rappresentano fattori che incidono non solo sulla “salute” del cittadino, ma anche sugli orientamenti economico-produttivi di un mercato volatile e soggetto ad una concorrenza estera sempre più pressante.
La protezione dei prodotti genuini è una priorità soprattutto per alcuni Stati Membri, principalmente del Sud dell’Europa, che operano per difendersi da una concorrenza spesso ai limiti della legalità.
L’infiltrazione criminale nel settore agroalimentare trae linfa dalle mancanze della normativa comunitaria, in quanto i produttori sono continuamente in cerca di soluzioni, anche illegali, per abbattere i costi e rimanere competitivi sul mercato.
Le nuove forme di «furto» ai danni del Made in Italy
Si è oggi diffusa nel nostro Paese una forma raffinata di Italian Sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole.
Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane, in questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto.
Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai dolci, dai salumi ai latticini. Il marchio Made in Italy è a rischio.
L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da parte di aziende estere comporta lo svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome.
In molti casi il cambio di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della defocalizzazione produttiva e della scelta di materie prime non locali.